Abbiamo già parlato più volte, in questa newsletter, del fatto che – almeno dal nostro punto di osservazione, forse un po’ privilegiato – abbiamo la sensazione di essere nel bel mezzo di un cambiamento rilevante e inarrestabile.
Da un lato, il mondo dell’impresa sta rapidamente assumendo un posizionamento rispetto alle tematiche di sostenibilità sociale e ambientale impensabile fino a pochi anni fa: Novamont, Danone, Reda, Illy, Alessi sono tra i marchi più noti ad avere scelto la forma giuridica di Società Benefit, e lo hanno fatto tutte nelle ultime 6 settimane.
Dall’altro, in tempi più recenti, si è visto qualche segnale del fatto che il tradizionale pregiudizio nei confronti dell’impresa (che pensa solo ai soldi, che deve “compensare” i danni che produce, eccetera) sta forse cominciando ad incrinarsi: un esempio su tutti quello degli enti locali che lanciano raccolte fondi tra i cittadini, per sostenere le imprese nella ripresa post Covid.
Ovviamente è un pregiudizio con qualche fondamento: il mondo dell’impresa non si è sempre comportato in modo eccellente – spesso neanche accettabile – rispetto alle sue responsabilità sociali e ambientali.
E’ però vero che la crisi senza precedenti che abbiamo sperimentato nei mesi scorsi ci ha sbattuto in faccia alcune cose, che avevamo un po’ dimenticato: che se fermi l’impresa, si ferma la creazione di valore economico per il Paese; che la crisi dell’impresa, finito il palliativo della Cassa Integrazione, si traduce nella perdita di posti di lavoro; che addirittura la produzione di molti beni e servizi da parte delle imprese non si può fermare, neanche quando è a rischio la salute, perché sono “di prima necessità” per le persone.
La dico forte: lo sviluppo sociale non può prescindere dall’impresa.
Questo non la autorizza, ovviamente, a fare ciò che vuole, a non assumersi le proprie responsabilità: il ricatto implicito legato alla creazione di occupazione, non è più tollerabile. Non è tollerato, nei fatti, già oggi: clienti, lavoratori, investitori sceglieranno altrimenti.
Ma l’idea che per far sì che l’impresa si comporti bene si debba “statalizzare tutto”, era oggetto di ironia già trent’anni fa da parte del poeta (comunista) Giorgio Gaber.
E’ possibile un modo “buono” di fare impresa, che sia scelto e non imposto per legge? E’ possibile rimettere al centro il servizio che essa deve rappresentare per la società, per le persone, al pari della creazione di profitti per gli azionisti?
La campagna Unlock the Change, promossa dal movimento delle B Corp italiane, dice questo: il cambiamento c’è già, siamo noi, ripartiamo da qui. Dalle B Corp, che hanno già sperimentato un modello, che funziona; dalle imprese italiane, che forse devono solo riscoprire il ruolo sociale che hanno già, lavorarci di più e meglio, raccontarlo di più e meglio; da noi tutti – come lavoratori, consumatori, investitori – che per sbloccare il cambiamento dobbiamo imparare a riconoscerlo, e sceglierlo.
